Giorgio Pellegrini osserva la nuca del suo connazionale. In quel campo, sperduto nella foresta amazzonica, sono due gli italiani fuggiti dalla giustizia del loro paese d'origine. Giorgio osserva la nuca dell'italiano e preme il grilletto. Il foro crea un corridoio che collega i due piani opposti. Un foro che svuota l'acquedotto di Silvio ma accoglie in se l'acqua del Rio delle Amazzoni, creando come uno stanco geyser in attesa di affondare.
Erano giunti insieme in America Latina dopo quell'attentato finito male, un'attentato che era costato la vita a un metronotte. Ora Giorgio è stanco di quella vita. La guerriglia è ben diversa dalla rivolta borghese della sua adolescenza.
Attraverso un percorso di donne illuse, tradimenti e ricatti, giunge nuovamente in Italia dove si costituisce. Se le sue minacce sono state efficaci, un compagno ergastolano dovrebbe rivendicare la responsabilità di quell'attentato per scagionarlo, evitando quindi che lui parli di persone su cui la giustizia non ha mai nutrito alcun sospetto.
Ferruccio Anedda, pezzo grosso della Digos, non è un deficiente. Ha saputo della trattativa con gli ex-compagni e costringe Giorgio a passargli tutti i nomi in cambio della promessa di non rivelare al giudice certe informazioni. Anedda vuole preparare un archivio da utilizzare appena il movimento ricominci con la sua strategia violenta. Una lista del genere potrebbe sempre servire.
Come può sempre servire il periodo di carcere che Giorgio si fa a San Vittore, prima di essere rilasciato grazie al compagno che ha deciso di pagare per lui. I legami che si instaurano dietro le sbarre, compresi quelli con i secondini, possono sempre tornare utili. Anche se alla fine sei proprietà della Digos, come sostiene Anedda, il cui fiato è sempre sul suo collo.
Giorgio seguirà un percorso in cui la sete di denaro sarà una fiamma talmente ardente da accecare qualsiasi forma di empatia. Ma ancor più forte è la sete di potere, di cui i soldi sono solo un mezzo per la sua definitiva stabilità. Giorgio è ssessionato dal potere, da quel potere che lui, nato in una famiglia borghese, avrebbe forse raggiunto se non avesse sprecato la sua occasione per correre dietro ad un ideale in cui neanche credeva. Questo desiderio patologico per il potere lo porta ad una continua e perversa ricerca dell'umiliazione altrui, donne soprattutto ma anche uomini che lui riesce a plagiare sfruttando le loro debolezze.
Anche se Giorgio è alla continua ricerca di "vittime" per sollazzare il suo narcisismo, egli dovrà continuare a essere la "puttana" di Anedda. Lo sbirro della Digos è come uno specchio capace di riflettere l'immagine di Giorgio mille volte, infliggendogli le stesse torture che egli gode a sferzare agli altri. Ma in maniera esponenziale, perché Giorgio non accetterà mai di essere lo schiavo di qualcuno. Lui aspira al potere. Lui aspira alla purificazione della riabilitazione. Anche se ciò vuol dire scendere ancor più nel fango creato dal sangue delle sue vittime.
L'ideale ascesa di Giorgio ha come sfondo il paesaggio del Nord-Est e come sottofondo il fischio della locomotiva nordista. Un'economia in cui politica, imprenditoria e criminalità, autoctona e immigrata, interagiscono come cellule di un unico tessuto.
Massimo Carlotto, in "Arrivederci amore, ciao", disegna un personaggio infido, un pezzo di merda che come un buco nero assorbe la dignità e la vita di chi gli sta accanto. Un essere per cui la vita degli altri è solo un gradino verso la propria indipendenza.
Giorgio non è uno di quei terroristi o guerriglieri romantici di cui tanto la narrativa e la cinematografia hanno tessuto le lodi. Giorgio non è neanche uno di quegli psicotici che, al fine di razionalizzare la loro aggressività e il loro istinto omicida, hanno sposato una causa ideologica o religiosa. Egli si è trovato per caso sulla strada della latitanza e dell'esilio. Un attentato non dissimile, ai suoi occhi di giovane borghese, ad un semplice atto di vandalismo di chi possiede senza meriti e onori. Una testa di cazzo appunto come mille ve ne sono purtroppo ancora sulla strada dell'emancipazione e della rivendicazione.
Anche il suo uccidere alla fine dell'esilio diviene una forma di debolezza, uno sfiato della frustrazione. L'atto di un fanciullo che nella catena della frustrazione percuote l'animale domestico. Coloro che uccide sono già vittime, di se stesse prima che della società. Quella che egli infligge è la dolce morte dopo l'annientamento esistenziale. L'uccidere non diviene un atto di forza e di potere, un'esaltazione dell'evoluzione ad un gradino più alto nel superamento della dicotomia del bene e del male. Quando guarderà il vero male negli occhi, attenderà il tutoraggio di qualcuno di ben più capace. Egli attenderà sempre, come un verme, il sorgere dell'handicap nella sua vittima. Un povero Patrick Bateman mancato.
Opposto è Anedda.. Lui è il potere. Il distintivo da sbirro gli permette tutto, insieme alla sua folle aggressività:
"I nostri amici saranno qui a momenti. Prepariamoci ad accoglierli". In cucina rovesciò il tavolo di legno e ne staccò una gamba.
"Useremo il sistema Rwanda. Rapido, silenzioso e letale".
Incarna il Mefistofele del Faust, ma la sua imperfezione è la bramosia del denaro, quella stessa bramosia di Giorgio ma in forma ancor più sterile emotivamente. La roba per la roba. Non il mezzo per il raggiungimento di un fine. Più cieco di Giorgio nella sua iperfagia e nella sua esaltazione di intoccabilità
"Ma cosa sei diventato, una carogna?" è la frase che Antonello Fassari pronuncia esterrefatto ad Alessio Boni, interprete di Giorgio, nella trasposizione cinematografica diretta da Michele Soavi. Proprio una carogna è quello che noi osserviamo grazie alla magistrale interpretazione di Boni.
Il ruolo di Anedda è assegnato a un Michele Placido tirato a lucido come un gerarca fascista in libera uscita nel boudoir di un bordello. Entra in scena con la forza di un primo ballerino che scalcia direttamente sui gioielli di famiglia dell'ex-terrorista.
Isabelli Ferrari interpreta Flora, una delle donne vittime di Giorgio. La sua bellezza è disarmante con il suo profilo tagliente e il suo corpo con la forza d'arresto del granito.
Michele Soavi trasforma il night, in cui Giorgio comincia a rodare la sua capacità criminale, in una onirica tenda da circo tra Lynch e Brass. Altro elemento onirico sono i flashback inerenti la tragica morte del metronotte. Le scene violente, tra poliziottesco e splatter, vengono mostrate in tutta la loro efferatezza.
Il regista non altera lo spirito dell'opera, non cerca di mitigare lo scritto. La scelta di Boni accentua ancor più l'antipatia di certi intellettualoidi per l'opera. La morte del terrorista romantico, mito ancor vivo da noi anche se in forma minore rispetto alla Francia, insieme alla forgiatura di un ex-terrorista cinico e scultoreo, risulta difficile da digerire per molti. Un pugno nichilista nello stomaco ulcerato dell'idealismo.
2 commenti:
Ottimo il romanzo, buono il film, perfetti gli attori. La scelta di Boni poi è stata sì, spiazzante per i soliti intellettualoidi ma nessuno potrà mai negare che si tratti di un ottimo attore.
Alessio Boni è veramente bravissimo. In questo film, come in altre opere, riesce a incarnare magnificamente le diversissime sfaccettature del personaggio.
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