Siamo onorati e felicemente estatici di presentarvi un nuovo racconto di Mirko Giacchetti! Un personaggio psicotico si muove tra le italiche strade popolate da spore urticanti per automobilisti e pedoni. I ciclisti!!! Ma la sua ossessione non sono questi demoni in tutina e caschetto che saettano come clisteri bollenti. No, questi sportivi, che paion usciti da una boutique gestita da Village People salutisti, sono solo un intermezzo al suo obiettivo ultimo. Se anche voi vi svegliate nel cuor della notte con l'immagine del vostro primo amore non potete perdervi questa folle corsa messianica alla ricerca di un sentimento liofilizzato nella propria mente. Lo swing vi accompagnerà nei meandri di una mente labirintica che par anch'essa liofilizzata... Buona lettura!!!
I
Il ronzio dell’alta tensione copriva ogni rumore dei campi spelacchiati attorno alla centrale elettrica. Con un generale sferragliare di ruggine contro ruggine, un furgone Fiat 238 bianco, sulle cui fiancate compariva l’ormai sbiadita scritta macelleria Bonini dal 1976, devastò l’equilibrio acustico dell’ultima periferia Biellese e terminò il viaggio, fermandosi al centro esatto del parcheggio vicino alla recinzione.
L’uomo alla guida vide i cartelli e sorrise quando notò che il simbolo del teschio e delle ossa incrociate campeggiava ovunque. Quella coincidenza lo spinse a immaginare gli operai della società elettrica come dei pirati. Vecchi lupi di mare avvinghiati ai piloni dell’alta tensione, impegnati a scrutare l’orizzonte nella disperata ricerca di qualche cargo da depredare e violare il suo prezioso ventre carico d’oro. Arrivò anche a sentire le grida “all'arrembaggio” e, per un attimo, l’odore del peggior rum delle Antille riempì l’abitacolo.
La fantasia partoriva pirati cattivi, tagliagole sbarcati dall’inferno, avidi rapaci di mare e non delle signorine a modo come Jack Sparrow.
Un pirata della Disney, il prossimo sarà Jack lo squartatore della Pixar? pensò, cercando di immaginare che razza di spalla potessero affiancare al primo serial killer della storia.
Sorrise, ma abbandonò i suoi pensieri.
Aveva un lavoro da fare e non poteva distrarsi.
Scese con un balzo, controllò che il parcheggio fosse deserto e si stirò a dovere.
Stivali di coccodrillo, blue jeans, camicia bianca, una fondina ascellare con tanto di pistola carica e la giacca di pelle, che completava il suo abbigliamento, era adagiata sul sedile passeggero.
Fece il giro del furgone, ma prima di aprire le portiere posteriori per il carico, tornò nell’abitacolo.
Si era dimenticato di indossare la maschera di Darth Maul. Dopo una rapida occhiata la vide sul prezioso frigo bar installato ai piedi del posto passeggero, solo quell’optional valeva quanto il furgone.
Non appena la indossò, sentì il lattice sulla pelle. Una sgradevole sensazione gli si appiccicò alla faccia, soffocandolo. Sbuffò, pensando che potesse bastare per liberarsene, ma non servì a nulla, così dovette allungare le mani e sistemare meglio la sua nuova faccia.
Fece un paio di passi, respirando a pieni polmoni l’odore chimico della gomma. “Si va in scena,” mormorò prima di aprire le porte del vano carico.
Riverso sul fondo, vicino a una cassetta degli attrezzi, c’era rannicchiato un ciclista. Caschetto bianco, maglietta sponsorizzata da ditte locali e calzoncini blu aderenti: l’abbigliamento del semiprofessionista domenicale. La destra degli abiti sportivi erano sfregiati da molteplici escoriazioni, alcune sanguinanti, ottenute da un prolungato sfregamento contro la strada statale.
“Allora, signor ciclista, sono convinto che ora abbia compreso la necessità di condividere l’asfalto con gli amici automobilisti, vero?”
L’uomo sorrise sotto la maschera, facendo tendere la maschera e aumentandone l’aria minacciosa.
Il ciclista continuava a lamentarsi sottovoce.
“Temo che sia giunto il momento di separarci, le dispiace scendere dal veicolo?”
Il ciclista diede un’occhiata all’uomo e sembrò concentrarsi sulla pistola nella fondina ascellare.
“Questa - disse l’uomo indicando la pistola – non dovrei utilizzarla con lei. A meno che voglia continuare a sostare nel retro del mio furgone. Quindi, la esorto a scendere,” disse, allungando la mano verso l’esterno.
Il ciclista si alzò in piedi ma, nonostante l’espressione di dolore, continuava a fissare la pistola.
I tacchetti delle scarpe sottolineavano ogni passo.
“Bene – disse dando una pacca amichevole sulla spalla sinistra del ciclista – ha fatto la cosa giusta. Sporga denuncia, l’assicurazione la ripagherà dei danni subiti, ma sono sicuro che capirà se non voglio compilare la constatazione amichevole, le è tutto chiaro?”
Il ciclista annuì.
“Attenda qui per cinque minuti e poi vada a cercare aiuto, la saluto.” chiuse la porte del furgone. Fece il giro del mezzo e salì al posto di guida.
Dopo una nuvola nera dal tubo di scappamento, il motore si riavviò. Lo sferragliare riprese non appena il furgone si mosse verso la statale.
Dopo una serie di abbaglianti, clacson e sguardi stupiti degli altri automobilisti, cercò di capire il motivo di tanta agitazione. Quando vide Darth Maul riflesso nello specchietto, capì tutto.
“Non avete mai visto un Sith alla guida di un furgone?” gridò in direzione dello specchietto retrovisore.
Dopo alcuni chilometri vide a bordo strada la bicicletta. Mise la freccia, accostò e scese.
Prese il rottame e lo caricò. Senza nemmeno pensarci un secondo, decise di tornare alla centrale elettrica e riportare al proprietario, ciò che rimaneva della sua una bicicletta da corsa.
Nel parcheggio vide il ciclista alzarsi non appena riconobbe il furgone e lo osservò correre in mezzo ai campi.
“Ehi, non rivuole la bici?”
Il ciclista aumentò il passo, zoppicando ancora più vistosamente.
“Ma tu pensa che persona, gli riporto la bici e scappa senza nemmeno ringraziare. Dove andremo a finire se ci dimentichiamo dell’educazione?” L’uomo scaricò la bici nel parcheggio.
Da sotto il sellino una suoneria fece di tutto per farsi notare. Era un cellulare. Qualcuno cercava il ciclista.
Canticchiando il motivetto della suoneria si adagiò sul sedile, prese una lattina di birra dal frigo e osservò la fuga del ciclista.
Cercò di bere un sorso, ma la maschera complicava l’operazione.
II
La domenica mattina era appena cominciata e il fatto di aver spiegato le regole di democratica circolazione sull’asfalto a un ciclista prepotente, lo aveva messo di buon umore. Dopo avere abbandonato il furgone, poteva proseguire nel suo viaggio.
Era sull’interregionale 1004. Torino – Milano. Sul sedile davanti a lui, qualcuno aveva abbandonato un giornale.
Omicidio sul treno. Uno squilibrato di trentacinque anni spara in una carrozza affollata uccidendo un ambulante. La notizia lo annoiò, passo alla successiva. Una madre uccide suo figlio e carica il video su Youtube. Roba vecchia e il giornalista non aveva nemmeno scritto un bell’articolo. Sospetto pluriomicida automobilista fermato alla guida della sua autovettura, dopo avere provocato l’ennesimo incidente mortale. Sembrava la trama di un film. Arrestato Salvatore Grosso, meglio noto come Big Sal, con l’accusa di omicidio. Il mafioso aveva ucciso due ragazzi per recuperare alcuni cimeli di Elvis. Sempre la solita bella Italia pizza, mandolino e mafia. Scovata un’intera comunità di cannibali nel cuore del nord.
Gettò il giornale. Ormai le notizie erano scadenti.
Capelli neri pettinati all’indietro con brillantina, Ray-Ban neri a goccia, labbra sottili. Un’espressione da duro.
Posso dirlo con sicurezza, io ero quell’uomo.
Ero in viaggio perché volevo ritrovare il mio primo amore.
Non era stata esattamente la prima, ma ogni donna precedente non significava nulla.
Si chiamava Alessandra.
Caschetto castano, occhi verdi e due labbra su cui morire.
Ultima tappa: Vercelli. Adoravo quella città, poiché oltre alle chiese e alle risaie, non c’era niente.
Dopo una mezzora di rotaie approdai alla meta e appena fuori dall’anonima stazione, mi guardai attorno.
Anche quella terra era appestata dai ciclisti della domenica.
Colpa degli agricoli che non spargevano abbastanza pesticidi.
Indeciso sul da fare, fermai una giovane metallara composta di borchie lucide, morbida pelle nera e anfibi molto scontrosi per chiedere informazioni.
“Sai dove abita Alessandra Netti?”
La ragazza si tolse gli auricolari dell’I-pod. Rispose con qualcosa di simile a un grugnito.
Ascoltava “Cowboys from Hell” dei Pantera.
“Ascolti i vaccari dall’inferno?”
La ragazza mi mostrò il dito medio su cui spiccava l’immancabile anello con il teschio truce e si allontanò. Una metallara di domenica mattina, vicino alla stazione. Provai pena, la sua non doveva essere una storia semplice.
Almeno credo.
Iniziai a passeggiare. Scelsi di percorrere Corso Garibaldi all’ombra degli stessi alberi di dieci anni prima. Era proprio sotto uno di questi esemplari di albero cittadino intossicato che avevo strappato il primo bacio ad Alessandra.
Mi diceva sempre che ero “strano”.
Non ho mai capito cosa intendesse.
Fermai un’anziana signora, questa donna era abbigliata peggio della metallara.
Un buon esempio di spendi-reversibilità Inps alla balera del paese.
“Mi scusi, sa dove abita Alessandra Netti?”
Dopo avere superato l’iniziale diffidenza, si degnò di rispondermi.
“Mi dispiace, ma non conosco nessuna Alessandra,” rispose affrettando il passo.
III
Tentai ancora un paio di volte a chiedere informazioni, ma nessuno sembrava conoscere Alessandra. Possibile che in città fossero tutti così riservati?
Decisi di pranzare in un bar del corso. Ordinai un panino con cotoletta e un frullato. Non avevano il gusto pera, ma mi accontentai di vaniglia.
Dieci anni prima Alessandra abitava con i genitori in via Firenze, a pochi passi dalla stazione. Presentarmi dai suoi sarebbe stata una pessima idea. Non ero mai piaciuto a mamma Ines. La matriarca le aveva provate tutte per farci lasciare: alla fine ci era riuscita. Il suo piano diabolico trovò il suo coronamento quando sognò nonno Mario, morto da almeno un decennio, che profetizzava tremende sciagure per Alessandra. Giocai il 47, morto che parla, per tre volte sulla ruota di Torino. Non vinsi nulla e lei alla fine terminò la nostra relazione.
Finito il pranzo, pagai e mi diressi verso la “Netti House”.
Dovevo tentare il colpo.
Giunsi al palazzone bianco, quattro piani e fila di finestre su ogni lato e riconobbi lo splendore dell’edilizia anni settanta, quando ancora il cemento aveva un’anima.
Controllai i campanelli. Nella piastrina di ottone c’erano due “Netti”. La fortuna mi era amica. Netti-Paneangeli e Grandobaldo-Netti. I primi erano i genitori, la diabolica mamma Ines era lievitata almeno quanto il famoso lievito. Il secondo poteva essere solo lei, ma “Grandobaldo”, chi era costui?
Dopo dieci anni le cose cambiano, ma non abbastanza.
Lei mi amava ancora, lo sapevo.
Suonai il campanello Grandobaldo-Netti e dopo una breve scossa elettrica, rispose una tenera vocina modello bambina.
“Chi – pausa – è?”
“Apri, sono il papà Grandobaldo,” risposi con voce in falsetto.
Clack, uno scatto metallico e la porta si aprì. No, anche se non ne vado fiero, devo ammettere che fregare qualcuno, anche se solo una mocciosetta, dà sempre qualche soddisfazione.
Salii le scale sino al primo piano e mi avvicinai alla porta socchiusa.
Per le scale odore di riso e tranquillità.
E di cos’altro poteva odorare la domenica vercellese?
“Come il papà Grandobaldo? Ma a chi hai aperto?”
Riconobbi la voce di Alessandra oltre la finta porta blindata.
“Non – pausa – lo so,” rispose la bambina.
La madre della bambina mi apparve davanti all’improvviso. La guardai bene, non la riconobbi.
Capelli neri, occhi marroni, carnagione scura.
“Alessandra?” chiesi alla sconosciuta.
Lei mi guardò. Sorrise.
“Mirko?”
Riconobbi il nome, era il mio.
“Cosa ci fai qui? Come mai sei passato da queste parti, ma…” all’improvviso si fece seria.
“Come mi hai chiamata?” chiese, socchiudendo la porta.
“Alessandra” risposi.
“Tu e quella… non mi fare parlare che c’è la bambina. Mi hai lasciato per quella… Io sono Erika, ma che cosa vuoi?”
Avevo fatto confusione, mi ero dimenticato di prendere le mie pillole. Erika Netti, non Alessandra Netti.
Allora, perché Alessandra e io ci eravamo lasciati? Non è che anche in quel caso c’entrava mamma Ines?
Mi grattai la nuca, cercando le parole adatte per non aumentare l’imbarazzo della situazione.
“Volevo solo sapere come stavi.”
Si limitò a sospirare e abbozzò un’espressione in bilico tra la compassione e la rabbia.
“Mi sono sposata, ora vedi di sparire.”
Mi fissai le punte degli stivali e notai che quella destra era rovinata da un piccolo graffio nero.
“C’è tuo marito?”
“No, non c’è. E’ uscito a fare un giro in bici, ma tra poco arriva.”
Un tic all’occhio destro manifestò tutto il mio disappunto.
Cazzo, - pensai – non potevi fare come le altre, sposarti un killer a pagamento, uno spacciatore, un esattore delle tasse, ma perché dovevi farti mettere l’anello al dito da un ciclista?
Respirai a fondo, poi chiesi: “ok, com’è vestito?”
“Da ciclista,” rispose.
Tornai a grattarmi la nuca.
“Scusa se ti ho disturbato.” Mi voltai e iniziai a scendere le scale, pensando che fosse il caso di sparire, prima che sul pianerottolo apparisse anche la temibile mamma Ines.
Uscii e mi sedetti sul gradino del palazzo. Nella mia testa si affollarono molti pensieri e ricordi, ma nessuno sembrava potermi aiutare nello scoprire perché Alessandra e io ci fossimo dovuti dire addio.
Fui distratto dall’arrivo di un ciclista che si fermò poco distante.
“Grandobaldo?”
“Si, chi vuole saperlo?”
“Mi risponda, ma sia sincero la prego, lei condivide l’asfalto con gli amici automobilisti, vero?” Chiesi, mentre estraevo la pistola dalla fondina.
Il ronzio dell’alta tensione copriva ogni rumore dei campi spelacchiati attorno alla centrale elettrica. Con un generale sferragliare di ruggine contro ruggine, un furgone Fiat 238 bianco, sulle cui fiancate compariva l’ormai sbiadita scritta macelleria Bonini dal 1976, devastò l’equilibrio acustico dell’ultima periferia Biellese e terminò il viaggio, fermandosi al centro esatto del parcheggio vicino alla recinzione.
L’uomo alla guida vide i cartelli e sorrise quando notò che il simbolo del teschio e delle ossa incrociate campeggiava ovunque. Quella coincidenza lo spinse a immaginare gli operai della società elettrica come dei pirati. Vecchi lupi di mare avvinghiati ai piloni dell’alta tensione, impegnati a scrutare l’orizzonte nella disperata ricerca di qualche cargo da depredare e violare il suo prezioso ventre carico d’oro. Arrivò anche a sentire le grida “all'arrembaggio” e, per un attimo, l’odore del peggior rum delle Antille riempì l’abitacolo.
La fantasia partoriva pirati cattivi, tagliagole sbarcati dall’inferno, avidi rapaci di mare e non delle signorine a modo come Jack Sparrow.
Un pirata della Disney, il prossimo sarà Jack lo squartatore della Pixar? pensò, cercando di immaginare che razza di spalla potessero affiancare al primo serial killer della storia.
Sorrise, ma abbandonò i suoi pensieri.
Aveva un lavoro da fare e non poteva distrarsi.
Scese con un balzo, controllò che il parcheggio fosse deserto e si stirò a dovere.
Stivali di coccodrillo, blue jeans, camicia bianca, una fondina ascellare con tanto di pistola carica e la giacca di pelle, che completava il suo abbigliamento, era adagiata sul sedile passeggero.
Fece il giro del furgone, ma prima di aprire le portiere posteriori per il carico, tornò nell’abitacolo.
Si era dimenticato di indossare la maschera di Darth Maul. Dopo una rapida occhiata la vide sul prezioso frigo bar installato ai piedi del posto passeggero, solo quell’optional valeva quanto il furgone.
Non appena la indossò, sentì il lattice sulla pelle. Una sgradevole sensazione gli si appiccicò alla faccia, soffocandolo. Sbuffò, pensando che potesse bastare per liberarsene, ma non servì a nulla, così dovette allungare le mani e sistemare meglio la sua nuova faccia.
Fece un paio di passi, respirando a pieni polmoni l’odore chimico della gomma. “Si va in scena,” mormorò prima di aprire le porte del vano carico.
Riverso sul fondo, vicino a una cassetta degli attrezzi, c’era rannicchiato un ciclista. Caschetto bianco, maglietta sponsorizzata da ditte locali e calzoncini blu aderenti: l’abbigliamento del semiprofessionista domenicale. La destra degli abiti sportivi erano sfregiati da molteplici escoriazioni, alcune sanguinanti, ottenute da un prolungato sfregamento contro la strada statale.
“Allora, signor ciclista, sono convinto che ora abbia compreso la necessità di condividere l’asfalto con gli amici automobilisti, vero?”
L’uomo sorrise sotto la maschera, facendo tendere la maschera e aumentandone l’aria minacciosa.
Il ciclista continuava a lamentarsi sottovoce.
“Temo che sia giunto il momento di separarci, le dispiace scendere dal veicolo?”
Il ciclista diede un’occhiata all’uomo e sembrò concentrarsi sulla pistola nella fondina ascellare.
“Questa - disse l’uomo indicando la pistola – non dovrei utilizzarla con lei. A meno che voglia continuare a sostare nel retro del mio furgone. Quindi, la esorto a scendere,” disse, allungando la mano verso l’esterno.
Il ciclista si alzò in piedi ma, nonostante l’espressione di dolore, continuava a fissare la pistola.
I tacchetti delle scarpe sottolineavano ogni passo.
“Bene – disse dando una pacca amichevole sulla spalla sinistra del ciclista – ha fatto la cosa giusta. Sporga denuncia, l’assicurazione la ripagherà dei danni subiti, ma sono sicuro che capirà se non voglio compilare la constatazione amichevole, le è tutto chiaro?”
Il ciclista annuì.
“Attenda qui per cinque minuti e poi vada a cercare aiuto, la saluto.” chiuse la porte del furgone. Fece il giro del mezzo e salì al posto di guida.
Dopo una nuvola nera dal tubo di scappamento, il motore si riavviò. Lo sferragliare riprese non appena il furgone si mosse verso la statale.
Dopo una serie di abbaglianti, clacson e sguardi stupiti degli altri automobilisti, cercò di capire il motivo di tanta agitazione. Quando vide Darth Maul riflesso nello specchietto, capì tutto.
“Non avete mai visto un Sith alla guida di un furgone?” gridò in direzione dello specchietto retrovisore.
Dopo alcuni chilometri vide a bordo strada la bicicletta. Mise la freccia, accostò e scese.
Prese il rottame e lo caricò. Senza nemmeno pensarci un secondo, decise di tornare alla centrale elettrica e riportare al proprietario, ciò che rimaneva della sua una bicicletta da corsa.
Nel parcheggio vide il ciclista alzarsi non appena riconobbe il furgone e lo osservò correre in mezzo ai campi.
“Ehi, non rivuole la bici?”
Il ciclista aumentò il passo, zoppicando ancora più vistosamente.
“Ma tu pensa che persona, gli riporto la bici e scappa senza nemmeno ringraziare. Dove andremo a finire se ci dimentichiamo dell’educazione?” L’uomo scaricò la bici nel parcheggio.
Da sotto il sellino una suoneria fece di tutto per farsi notare. Era un cellulare. Qualcuno cercava il ciclista.
Canticchiando il motivetto della suoneria si adagiò sul sedile, prese una lattina di birra dal frigo e osservò la fuga del ciclista.
Cercò di bere un sorso, ma la maschera complicava l’operazione.
II
La domenica mattina era appena cominciata e il fatto di aver spiegato le regole di democratica circolazione sull’asfalto a un ciclista prepotente, lo aveva messo di buon umore. Dopo avere abbandonato il furgone, poteva proseguire nel suo viaggio.
Era sull’interregionale 1004. Torino – Milano. Sul sedile davanti a lui, qualcuno aveva abbandonato un giornale.
Omicidio sul treno. Uno squilibrato di trentacinque anni spara in una carrozza affollata uccidendo un ambulante. La notizia lo annoiò, passo alla successiva. Una madre uccide suo figlio e carica il video su Youtube. Roba vecchia e il giornalista non aveva nemmeno scritto un bell’articolo. Sospetto pluriomicida automobilista fermato alla guida della sua autovettura, dopo avere provocato l’ennesimo incidente mortale. Sembrava la trama di un film. Arrestato Salvatore Grosso, meglio noto come Big Sal, con l’accusa di omicidio. Il mafioso aveva ucciso due ragazzi per recuperare alcuni cimeli di Elvis. Sempre la solita bella Italia pizza, mandolino e mafia. Scovata un’intera comunità di cannibali nel cuore del nord.
Gettò il giornale. Ormai le notizie erano scadenti.
Capelli neri pettinati all’indietro con brillantina, Ray-Ban neri a goccia, labbra sottili. Un’espressione da duro.
Posso dirlo con sicurezza, io ero quell’uomo.
Ero in viaggio perché volevo ritrovare il mio primo amore.
Non era stata esattamente la prima, ma ogni donna precedente non significava nulla.
Si chiamava Alessandra.
Caschetto castano, occhi verdi e due labbra su cui morire.
Ultima tappa: Vercelli. Adoravo quella città, poiché oltre alle chiese e alle risaie, non c’era niente.
Dopo una mezzora di rotaie approdai alla meta e appena fuori dall’anonima stazione, mi guardai attorno.
Anche quella terra era appestata dai ciclisti della domenica.
Colpa degli agricoli che non spargevano abbastanza pesticidi.
Indeciso sul da fare, fermai una giovane metallara composta di borchie lucide, morbida pelle nera e anfibi molto scontrosi per chiedere informazioni.
“Sai dove abita Alessandra Netti?”
La ragazza si tolse gli auricolari dell’I-pod. Rispose con qualcosa di simile a un grugnito.
Ascoltava “Cowboys from Hell” dei Pantera.
“Ascolti i vaccari dall’inferno?”
La ragazza mi mostrò il dito medio su cui spiccava l’immancabile anello con il teschio truce e si allontanò. Una metallara di domenica mattina, vicino alla stazione. Provai pena, la sua non doveva essere una storia semplice.
Almeno credo.
Iniziai a passeggiare. Scelsi di percorrere Corso Garibaldi all’ombra degli stessi alberi di dieci anni prima. Era proprio sotto uno di questi esemplari di albero cittadino intossicato che avevo strappato il primo bacio ad Alessandra.
Mi diceva sempre che ero “strano”.
Non ho mai capito cosa intendesse.
Fermai un’anziana signora, questa donna era abbigliata peggio della metallara.
Un buon esempio di spendi-reversibilità Inps alla balera del paese.
“Mi scusi, sa dove abita Alessandra Netti?”
Dopo avere superato l’iniziale diffidenza, si degnò di rispondermi.
“Mi dispiace, ma non conosco nessuna Alessandra,” rispose affrettando il passo.
III
Tentai ancora un paio di volte a chiedere informazioni, ma nessuno sembrava conoscere Alessandra. Possibile che in città fossero tutti così riservati?
Decisi di pranzare in un bar del corso. Ordinai un panino con cotoletta e un frullato. Non avevano il gusto pera, ma mi accontentai di vaniglia.
Dieci anni prima Alessandra abitava con i genitori in via Firenze, a pochi passi dalla stazione. Presentarmi dai suoi sarebbe stata una pessima idea. Non ero mai piaciuto a mamma Ines. La matriarca le aveva provate tutte per farci lasciare: alla fine ci era riuscita. Il suo piano diabolico trovò il suo coronamento quando sognò nonno Mario, morto da almeno un decennio, che profetizzava tremende sciagure per Alessandra. Giocai il 47, morto che parla, per tre volte sulla ruota di Torino. Non vinsi nulla e lei alla fine terminò la nostra relazione.
Finito il pranzo, pagai e mi diressi verso la “Netti House”.
Dovevo tentare il colpo.
Giunsi al palazzone bianco, quattro piani e fila di finestre su ogni lato e riconobbi lo splendore dell’edilizia anni settanta, quando ancora il cemento aveva un’anima.
Controllai i campanelli. Nella piastrina di ottone c’erano due “Netti”. La fortuna mi era amica. Netti-Paneangeli e Grandobaldo-Netti. I primi erano i genitori, la diabolica mamma Ines era lievitata almeno quanto il famoso lievito. Il secondo poteva essere solo lei, ma “Grandobaldo”, chi era costui?
Dopo dieci anni le cose cambiano, ma non abbastanza.
Lei mi amava ancora, lo sapevo.
Suonai il campanello Grandobaldo-Netti e dopo una breve scossa elettrica, rispose una tenera vocina modello bambina.
“Chi – pausa – è?”
“Apri, sono il papà Grandobaldo,” risposi con voce in falsetto.
Clack, uno scatto metallico e la porta si aprì. No, anche se non ne vado fiero, devo ammettere che fregare qualcuno, anche se solo una mocciosetta, dà sempre qualche soddisfazione.
Salii le scale sino al primo piano e mi avvicinai alla porta socchiusa.
Per le scale odore di riso e tranquillità.
E di cos’altro poteva odorare la domenica vercellese?
“Come il papà Grandobaldo? Ma a chi hai aperto?”
Riconobbi la voce di Alessandra oltre la finta porta blindata.
“Non – pausa – lo so,” rispose la bambina.
La madre della bambina mi apparve davanti all’improvviso. La guardai bene, non la riconobbi.
Capelli neri, occhi marroni, carnagione scura.
“Alessandra?” chiesi alla sconosciuta.
Lei mi guardò. Sorrise.
“Mirko?”
Riconobbi il nome, era il mio.
“Cosa ci fai qui? Come mai sei passato da queste parti, ma…” all’improvviso si fece seria.
“Come mi hai chiamata?” chiese, socchiudendo la porta.
“Alessandra” risposi.
“Tu e quella… non mi fare parlare che c’è la bambina. Mi hai lasciato per quella… Io sono Erika, ma che cosa vuoi?”
Avevo fatto confusione, mi ero dimenticato di prendere le mie pillole. Erika Netti, non Alessandra Netti.
Allora, perché Alessandra e io ci eravamo lasciati? Non è che anche in quel caso c’entrava mamma Ines?
Mi grattai la nuca, cercando le parole adatte per non aumentare l’imbarazzo della situazione.
“Volevo solo sapere come stavi.”
Si limitò a sospirare e abbozzò un’espressione in bilico tra la compassione e la rabbia.
“Mi sono sposata, ora vedi di sparire.”
Mi fissai le punte degli stivali e notai che quella destra era rovinata da un piccolo graffio nero.
“C’è tuo marito?”
“No, non c’è. E’ uscito a fare un giro in bici, ma tra poco arriva.”
Un tic all’occhio destro manifestò tutto il mio disappunto.
Cazzo, - pensai – non potevi fare come le altre, sposarti un killer a pagamento, uno spacciatore, un esattore delle tasse, ma perché dovevi farti mettere l’anello al dito da un ciclista?
Respirai a fondo, poi chiesi: “ok, com’è vestito?”
“Da ciclista,” rispose.
Tornai a grattarmi la nuca.
“Scusa se ti ho disturbato.” Mi voltai e iniziai a scendere le scale, pensando che fosse il caso di sparire, prima che sul pianerottolo apparisse anche la temibile mamma Ines.
Uscii e mi sedetti sul gradino del palazzo. Nella mia testa si affollarono molti pensieri e ricordi, ma nessuno sembrava potermi aiutare nello scoprire perché Alessandra e io ci fossimo dovuti dire addio.
Fui distratto dall’arrivo di un ciclista che si fermò poco distante.
“Grandobaldo?”
“Si, chi vuole saperlo?”
“Mi risponda, ma sia sincero la prego, lei condivide l’asfalto con gli amici automobilisti, vero?” Chiesi, mentre estraevo la pistola dalla fondina.
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