martedì 19 gennaio 2016

Italia Violenta: Le Brigate Rosse e le torture del professor De Tormentis, attraverso "Colpo al cuore" di Nicola Rao





     Questa immagine del generale sottocapo di Stato Maggiore Logistico James Lee Dozier, comandante della NATO nell'Europa meridionale di stanza a Verona, ha fatto il giro del mondo, ancor più di quelle del corpo di Aldo Moro in via Caetani. Rapire un generale americano equivaleva al suicidio per qualsiasi gruppo rivoluzionario, ma in realtà le Brigate Rosse erano già morte. Quel sequestro serviva più a dimostrare a se stesse di essere vive, che non ricordarlo ai nemici capitalisti e colonialisti.
 Le BR, quando rapirono Dozier il 17 dicembre 1981, erano ormai allo sfascio. A questa situazione contribuirono due fattori, ossia i pentiti e l'effetto derivante, all'interno e all'esterno dell'organizzazione terroristica, da due degli ultimi rapimenti attuati dalle BR, quello di Roberto Peci e quello di Giuseppe Taliercio.
 Giuseppe Taliercio, ingegnere e dirigente del petrolchimico Montedison di Marghera, venne sequestrato il 20 maggio 1981 per aprire una trattativa con Confindustria o con Montedison, riguardo la riassunzione dei cassintegrati del petrolchimico, e per estorcere al dirigente confidenze riguardo possibili carenze a carico del livello di sicurezza presente in fabbrica, in realtà in linea con i protocolli europei. La situazione entrò presto in stallo, soprattutto a causa della concomitanza di altri sequestri che misero in ombra quello dell'ingegnere del petrolchimico, ossia il sequestro dell'assessore campano ai Lavori pubblici Ciro Cirillo, quello dell'ingegnere dell'Alfa Romeo Renzo Sandrucci e quello di Roberto Peci. Giuseppe Taliercio venne ucciso dopo 46 giorni di prigionia, il 5 luglio 1981.
 Il risultato dell'esecuzione fu quello di isolare ancor più le BR "ortodosse" legate a Moretti, definite naziste dagli stessi operai del petrolchimico e staliniste dagli altri monconi persi per strada. Proprio l'omicidio dell'ingegnere della Montedison portò all'ultima scissione. Il gruppo veneto, "colonna Annamaria Ludmann", si divise e nacquero le Brigate Rosse - Colonna 2 agosto.


L'indignazione degli operai per il vile assassinio dell'ing. Taliercio, immortalata dal fotogiornalista Dino Fracchia.


 Era la terza scissione dopo quella del "Partito Guerriglia Metropolitana" e quella della colonna milanese "Walter Alasia", che credeva nel legame con il proletariato e il ritorno della rivoluzione nelle fabbriche. Il Partito Guerriglia nacque per volere del brigatista Giovanni Senzani, come conseguenza delle divergenze tra il gruppo storico delle BR, i cui membri erano ormai detenuti, e la leadership di Mario Moretti. Il Senzani riteneva fondamentale reclutare tra le fila delle BR il "proletariato extralegale", quindi detenuti comuni, disadattati ed emarginati, rifacendosi in parte alle teorie espresse da Marcuse in "Controrivoluzione e rivolta" (Arnoldo Mondadori Editore, 1973). Il fronte delle carceri risultava il fronte principale per il Senzani. I brigatisti detenuti riferivano una situazione tragica all'interno dei penitenziari, umiliazioni che andavano a fondersi con maltrattamenti e violenze psicologiche. Malcontento che si manifestò con le rivolte del carcere dell'Asinara, 19 agosto 1978, e del carcere di Trani, 28 dicembre 1980. Interessante la testimonianza di Curcio riguardo gli avvenimenti dell'Asinara, che è  presente nella sua autobiografia "A viso aperto" (Arnoldo Mondadori Editore, 1993).
 Dopo l'omicidio di Giuseppe Taliercio, il vicedirettore del Sisde Vincenzo Parisi, in via provvisoria alla guida del servizio segreto dal 28 maggio al 18 luglio, dette istruzione di diffondere alcuni volantini, con fantasiose sigle come Brigata Gianfranco Faina o Per il comunismo Mpro, a fine di disinformazione, per seminare dubbi circa l'utilità politica di eseguire la sentenza di morte a carico dei soggetti sequestrati. I volantini, della cosiddetta "Operazione Vola", contribuirono a diffondere quei dubbi che già fermentavano dal cruento esito del sequestro Moro, pur non riuscendo a salvare la vita a Roberto Peci. I volantini non furono mai sconfessati dal Senzani e dal suo "Fronte delle carceri". Questo elemento non fa che gettare un'altra ombra sulla figura di questo brigatista.
 Prima di passare al Peci, vorrei ricordare che nel settembre 1979 Parisi divenne proprietario di alcuni immobili in via Gradoli, proprio nei due edifici in cui Moretti usò un box auto e dove allestì la prima base delle BR capitoline. (Giuseppe De Luis "Il golpe di via Fani", 2007, Sperling e Kupfer Editori S.p.A.)
 Roberto Peci era il fratello minore del brigatista Patrizio Peci, uno dei capi della colonna torinese insieme a Rocco Micaletto. Patrizio Peci, dopo l'arresto del 19 febbraio 1980, decise di collaborare. Proprio grazie alle sue rivelazioni, i carabinieri scoprirono il principale covo genovese delle Br. La mattanza di via Fracchia 12, con i suoi quattro brigatisti e i dubbi che continuano ancora oggi, segnò, insieme alle successive rivelazioni del pentito Carlo Bozzo, la fine della colonna genovese.


I corpi dei quattro brigatisti uccisi in via Fracchia 12


 Roberto Peci venne sequestrato dal "Partito Guerriglia Metropolitana" a San Benedetto del Tronto il 10 giugno 1981, poiché ritenuto coinvolto nell'arresto del fratello. Secondo il Senzani, Roberto, spia di dalla Chiesa, aveva venduto il fratello ai carabinieri. Il sequestrato fu costretto a confessare questa ipotesi durante un processo farsa, prima di essere fucilato in un rudere nei pressi della campagna romana. L'omicidio di Roberto Peci, oltre che a rappresentare l'inizio di un clima di terrore che causerà moltissime esecuzioni all'interno delle carceri, dove il delirio brigatista sarebbe stato sublimato dalla caccia al pentito, ha anche dei risvolti particolarmente oscuri. Secondo alcuni, il Senzani avrebbe utilizzato quell'esecuzione per inviare un messaggio, a soggetti esterni o interni alle Br, attraverso la durata della prigionia, 55 giorni, e il numero di proiettili, 11, usati per uccidere Peci. Tutti corrispondenti ai numeri del caso Moro.


Un fotogramma dell'esecuzione di Roberto Peci


 Se il ritorno alle fabbriche, finalizzato a contrastare una possibile egemonia su queste da parte della "colonna Walter Alasia", aveva avuto un effetto boomerang, riacutizzando la ferita derivante dall'omicidio di Guido Rossa, forse era meglio tornare a colpire il cuore. Il cuore non dello Stato, ma il cuore della Nato. Il cuore degli Stati Uniti d'America. Il fine era anche quello di porsi come unici eredi della lotta partigiana. Terminata la liberazione dai tedeschi, ora bisognava liberare l'Italia dagli yankee. Liberare l'Italia dalla militarizzazione del territorio, soprattutto dopo l'istallazione dei missili nucleari a Comiso. Le BR dovevano essere un esempio per tutti i gruppi rivoluzionari del mondo.
 Quel pomeriggio del 17 dicembre 1981, dopo essere stato prelevato dal suo appartamento al numero civico 5 di Lungo Adige a Verona, Dozier venne condotto in un appartamento sicuro di via Pindemonte, a Padova, dove fu sottoposto a un interrogatorio mirante a scoprire la dislocazione delle testate nucleari in Italia e l'organizzazione dell'apparato di controguerriglia e di antiguerriglia atlantico. I brigatisti si trovarono difronte non una vittima spaesata, ma una macchina da guerra. Dozier rispondeva pacatamente a ogni domanda, peccato che riferisse di non essere a conoscenza di nessuno degli argomenti di interesse per i brigatisti, mentre, quando non era interrogato, il militare attuava degli esercizi isometrici, per mantenersi in forma e pronto a qualsiasi evenienza. Ai brigatisti sembrava di avere in casa il tenente colonnello William "Bill" Kilgore.
Quella situazione di stallo ebbe comunque una fine improvvisa. Alle undici di mattina del 28 gennaio, gli agenti del Nocs fecero irruzione nel covo di Padova, liberando il colonnello Dozier.




 Come fecero quelli dell'UCIGOS a sapere del covo sito in via Pindemonte? Si parlò di una soffiata e poi di un pentito delle Br, ma in realtà si realizzò ciò che molti brigatisti temevano con orrore: l'uso della tortura.
 Tra i brigatisti, oltre alla paura di essere massacrati senza avere la possibilità di arrendersi, come avvenuto secondo alcuni in via Fracchia, si diffusero voci riguardo all'uso della tortura da parte delle forze dell'ordine. In alcuni casi, per porre termine alla tortura, forse, basta confessare. Il problema è che loro, dopo essere passati dalle mani di un carnefice, sarebbero finiti in quelle di un sadico ben più temibile, la macchina del terrore creata nelle carceri dal paranoico Senzani contro i pentiti.



 
 Dopo il sequestro Moro, i servizi decisero di utilizzare metodi particolari. Un misterioso funzionario dell'antiterrorismo, soprannominato "professor De Tormentis", cominciò a muoversi per l'Italia utilizzando, insieme a quattro fidati collaboratori, una variazione più estrema del waterboarding, la cosidetta "algerina". Il soggetto veniva spogliato e legato mani e piedi ai quattro lati di un tavolo, in maniera tale che il torace sporgesse all'esterno. Litri di acqua e sale venivano somministrati, in maniera intermittente, per via orale, attraverso l'uso di imbuti e cannule. Dopo circa un'ora il soggetto perdeva il controllo degli sfinteri e vomitava anche l'anima.
 Il libro di Nicola Rao, "Colpo al cuore" (181 pagine, 2011, Sperling & Kupfer, link Amazon), ripercorre questi eventi attraverso le storie di due personaggi coinvolti direttamente, ossia il brigatista Antonio Savasta e il commissario Salvatore Genova. L'importanza del libro di Rao non può essere limitata alla descrizione di un periodo ormai chiuso della storia italiana. Esso affronta un argomento di grande attualità, basta pensare all'odierna lotta al terrorismo, ma anche agli eventi del G8 di Genova e al massacro avvenuto ai danni di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, poiché esso rappresenta il pericolo derivante dall'assenza del reato di tortura in Italia.




5 commenti:

Lucius Etruscus ha detto...

Pezzo durissimo e da brividi, con una chiusura che impedisce di pronunciare la frase liberatoria "tanto sono cose del passato"...

Nick Parisi. ha detto...

No, non si tratta per niente di cose del passato. Purtroppo viviamo ancora nel paese dei <misteri.

Ivano Satos ha detto...

@Lucius Comprai il libro appena uscì in libreria. Fece un bel po' di scalpore, ne parlò la trasmissione "Chi l'ha visto" e "L'espresso", anche se quelle erano voci sussurrate da anni. Scrivere e pubblicare un libro come quello dopo l'11 settembre ha un valore immenso, soprattutto per il nostro passato ipocrita e il nostro presente criminale.

@Nick L'Italia ha vinto la guerra contro il terrorismo rosso in modo antidemocratico. Ora sembra quasi compiacersi di aver oltrepassato un solco inviolabile, come un bambino viziato abituato alla prepotenza e alla violenza. Si è appropriata di un falso diritto e ora se lo tiene ben stretto.

Bruno ha detto...

Scopro di aver pochissima voglia di ricordare quei periodi e quei massacri. Oggi comunque gli assassini sono altri, ma non è mica finita.

Ivano Satos ha detto...

Capisco che può essere diverso per chi ha vissuti razionalmente gli anni di piombo, io ero troppo piccolo per capire.
Si provano altre sensazioni a ripercorrere quei sentieri di follia.