sabato 30 agosto 2014

venerdì 29 agosto 2014

Non parlare agli estranei - Racconto completo di Mirko Giacchetti



    La scoperta di questa fantastica immagine di un ipotetico horror-rockfiction movie la dobbiamo a Obsidian M., geniale mente curatrice dei blog Obsploitation e The Obsidian Mirror. Guardandola non può che venirci in mente il sincopato autore di  "Scommessa A Memphis" ( recensione BeatiLotofagi), ovvero Mirko Giacchetti. In quest'opera di pura rockfiction il Diavolo giunge sulla Terra assumendo le sembianze di Marlon Brando. Un Diavolo che cammina per le strade di Memphis saturo della magia di una star. Il fine di questo improvviso espatrio? Salvare il mondo dal grigiore e dalla monotonia statica donandogli le acrobazie vocali e pelviche del grande Elvis.
 Ma il nostro poliedrico autore ha messo le mani anche sul polpo lovecraftiano, antagonista del fantasioso movie, attraverso il racconto "L'insostenibile leggerezza del caos", vincitore del concorso Ritorno a Dunwich. Il protagonista de "L'insostenibile leggerezza del caos" sembra quasi il figlio del Diavolo di Scommessa a Memphis, anch'egli si muove come una star. Pare quasi non camminare, levita al di là del suolo impolverato che si ritira indegno. Falcia l'aria con la sua carica e freddezza. Si muove come  lo Stansfield di Leon e il Troy di Face. Capace di parlare di Cthulhu come di un parente minorato. Un Rain Man tentacolare da tenere buono per qualcosa di più di una vincita al Blackjack!

    Felice di codesta filmica scoperta il nostro amato autore, dopo il racconto "Occasione", ci ha donato una nuova short story. Il racconto è dedicato a tutti i pendolari che trascorrono ore infinite nei nostri splendidi treni italici... Che questo racconto possa allietare e rendere spensierati tali momenti. Buona Lettura!







Non parlare agli estranei
di Mirko Giacchetti

    La situazione è molto semplice. Questa mattina mi sono vestito, sono uscito e ho acquistato un biglietto Torino-Venezia. Alla stazione ho preso l’interregionale e con me ho portato una Beretta, otto colpi e un po’ di rabbia da sfogare. L’intenzione è di uccidere il primo che mi rivolgerà la parola sul treno.
La gente spara dai balconi, nelle scuole, nelle piazze. Ormai si può premere il grilletto un po’ ovunque, quindi perché non dovrei farlo sul treno?
Non vivo in un film, vivo nella realtà. Questa è la parte meno interessante della mia vita.
Il mio analista sostiene che potrei avere una forte depressione, insiste sull’importanza di darmi degli scopi, di “non lasciarmi vivere”. Dice che dovrei tenere un diario in cui annoto i fatti importanti della mia giornata, per riflettere sull’importanza del mio operato e prendere coscienza della… E poi non ricordo il resto. Queste sono alcune delle frasi che spesso ripete, ne dice parecchie, forse troppe.
 

Io non sono pazzo, lui è il dottore e tu sei il lettore. Un passo indietro, procediamo con ordine.
La stazione è un concentrato di cemento, sporcizia e fretta. Sono riuscito a resistere alla tentazione di immergermi nella bidimensionalità della pubblicità, salendo sul treno. È pieno di pendolari. Mi domando chi sarà il fortunato che entrerà a far parte di questa personale presa di coscienza sull’importanza del mio operato. La donna in carriera che si protegge dietro la sua inutile borsetta, lo studente assonnato, il tizio in giacca e cravatta che guarda tutti dall’alto in basso, il rasta che rolla sigarette, l’extracomunitario che si fa i fatti suoi, l’immancabile pensionato che si lamenta sempre, oppure il controllore che mi chiederà il biglietto? Chi sarà?
Prima di entrare nel vagone, un tizio mi pesta il piede. La mia mano corre a stringere la Beretta. Ci fissiamo negli occhi. Accenno a un sorriso. Sono pronto allo scatto. Sta per chiedermi scusa, ma la sua arroganza prevale. Da bravo maschio Alfa non vuole cedere il posto da capo branco e si volta dall’altra parte. La maleducazione gli ha salvato la vita.
Trovo un posto sul lato destro della carrozza, senso di marcia, lato corridoio. La pistola è nella fondina ascellare. Uno spesso giubbotto di pelle ne nasconde ogni traccia. Davanti a me siede una vecchia che divora un giornaletto tutto foto e pettegolezzi, alla sua sinistra un ometto grasso legge un quotidiano. Sulla mia destra c’è una ragazza, iPod a tutto volume. Ascolta una tremenda musica di merda. Dovrei spararle, anche se non mi rivolge la parola. Le risparmierei un’adolescenza infelice, spesa ad ascoltare milionari che a quarant’anni ancora non hanno trovato l’Amore. Se sono così sfigati, perché non se lo comprano l’Amore? Poverini, loro soffrono, e con tutti quei lamenti ingrossano il conto corrente. Ammorbano l’etere. No, devo smetterla. Sono qui per fare altro. La musica altrui, anche se pessima, non deve distrarmi.
Mi concentro sulla vecchia. Cerco di trasmetterle mentalmente il messaggio, parlami!
La fisso e ripeto il mio mantra: parlami, parlami, parlami, parlami…Niente, continua a leggere. Allora insisto, parlami vecchia troia, parlami vecchia troia, parlami vecchia troia, parlami vecchia troia…
Funziona. Alza lo sguardo. Mi vede. Sorride imbarazzata, stringe la borsa e la copre con il giornale. Torna a leggere. Crede che voglia rubarle la borsa? No, signora io vorrei ucciderla, non si preoccupi della borsa.
 

Il treno parte. La vecchia non alza più la testa. All’improvviso l’altoparlante inizia a gracchiare. Dovrei sparargli? No, devo uccidere, non compiere un atto di vandalismo. Devo mantenere fede ai miei propositi.
Alle spalle della vecchia sento gridare. Una bambina si lamenta. II caldo, la pancia. Non capisco e nemmeno mi interessa.
Il rollio del treno mi culla un po’. Provo a entrare in contatto con un grassone. Non si stacca dal giornale. Cerco di urtarlo con il ginocchio. Mancato. Ritento, ci riesco. Senza battere ciglio, lo sposta. Esegue una manovra perfetta, senza smettere di leggere. Vorrei prendere l’accendino e bruciargli il giornale. Me lo vedo a gettare il giornale in fiamme, mentre abbaia verde per la bile, bianco per la tensione e rosso come un peperone. Un iracondo patriottico. Solo che non sarà lo stress a ucciderlo, ma un avvelenamento da piombo. Niente piromania però, devo giocare secondo le regole. Devo trovare qualcuno che proprio non riesce a stare zitto. Il grassone è troppo preso dalle sue notizie, lascio perdere.
Provo a fissare la ragazzina, vediamo se reagisce. Le avranno insegnato a essere arrogante, a non farsi mettere sotto, che deve essere forte sempre e comunque. La fisso. Se ne accorge. Mi guarda con la coda dell’occhio. Si volta verso il finestrino e osserva il grigio scorrere della periferia. Non ci siamo. ’Sti ragazzetti non li hanno cresciuti a pane, Rambo e Commando? Non si sente come la tipa in Resident Evil? Dovrebbe sognare di menare le mani, massacrare chiunque le dia fastidio. Forse, questa guarda noiose commediole, pipponi sentimentali e fintireality. Magari pensa di nominarmi, così mi potrà mandare nel tugurio.
Niente, ho dei compagni molto discreti. Allargo i miei orizzonti, per avere più scelta.
Posto vicino alla porta, singolo. Trentenne vestito casual, netbook sulle gambe. Scrive, scrive, scrive e fissa il monitor. Facebookaro cronico. Non riconosce un suo amico se non riesce a taggarlo. Lo guardo, ha un’espressione triste. Penso. Chissà se nell’aldilà c’è Facebook? Tutti i dannati hanno un pc, milioni di amici e un particolare: nessuna connessione. Bestemmiano tutti i santi e possono telefonare al servizio clienti del gestore telefonico, che, come si sa, non risolve un bel niente ma segnala a qualcun altro il guasto che già conosci! Rido di gusto. Fisso il pollo e vedo che scoppia a piangere. Cerco di guardare il monitor, ma non vedo nulla. Apre una pagina, accede alla posta e inizia a scrivere una @ che inizia con le parole «mi ha lasciato». Ma dai! Si lasciano tramite internet! Dov’è che sono finite le interminabili chiacchierate piene di dolore, rabbia e compassione? Giovani. Non li capisco più.
Davanti a lui due donne senza età. Una volta erano mamme (quasi nonne), oggi, invece, le chiamano ragazze. Una parla al cellulare, non ha pudore, spiega cosa ha fatto con uno, con l’altro, cosa ha detto, cosa è successo al lavoro, a casa, con le amiche.
Come lo sfigato che ha di fronte, cerca di condividere la sua vita con tutti. Due generazioni, due tecnologie, lo stesso risultato: parlano, parlano e non comunicano niente.
Stazione. Il treno inizia a rallentare. Ok, metto una mano sulla pistola, forse è la volta buona. Allungo le gambe per occupare più spazio possibile. I tre con cui condivido lo spazio dovranno parlarmi, magari anche solo per chiedermi permesso.
Alle spalle della vecchia sento urlare la mamma. Minaccia la bambina di privarla di qualche giocattolo, poi ruggisce che deve stare ferma, zitta, composta.
La vecchia scivola di lato, stringe la borsetta e scompare. La ragazza mi scavalca e si affretta dietro alla vecchia. Il grassone legge il giornale.
 

«Signore!»
Qualcuno mi sta parlando, sto per estrarre la pistola, mi volto.
Cazzo, è la bambina urlante. Mi sta tirando una manica del giubbotto.
Non posso spararle. Una bambina non è responsabile, per logica dovrei aspettare che arrivi la madre e sparare a lei. La madre è maggiorenne, responsabile per l’operato della figlia. I peccati dei figli devono pagarli i padri. E poi? Un’orfanella?
«Vado a trovare papà e lei dove va?»
Appunto, non devo aspettare la mamma. Dovrei scendere e sparare a tutta la famiglia.
Mi fissa e sorride. Stringo la pistola. Non posso venire meno ai miei propositi. Se lo facessi, allora cosa dovrei scrivere nel mio diario? Caro Diario, non ho sparato a una bambina perché… Già perché cazzo non sparo alla bambina?
Vivo in un film, non vivo nella realtà. Questa è la parte più interessante della mia vita.
Slaccio il bottone della fondina. Il braccio sembra ghiacciato.
Le sparo in fronte, o al cuore?
Arriva la madre, la strattona, la bambina lascia la presa.
La donna mi guarda e dice: «la perdoni, è piccola e iperattiva».
Fisso la madre, rispondo: «l’ho già perdonata».
Ok, non le ho sparato e ho fatto bene, ma ora devo sistemare la madre. Lascio la pistola, le punto l’indice contro e dico: «non può trattare un po’ meglio sua figlia?»
Sbarra gli occhi, poi accenna a una risposta.
«Io le voglio bene, non le faccio mancare nulla… Ma lei chi è per dire questo?»
Rispondo colpo su colpo.
«Pensa di dimostrare l’amore con minacce, ordini e costrizioni? Non le fa mancare nulla di materiale? Ottimo, ma l’affetto dov’è?»
Mi guarda come se dovesse fulminarmi.
«Vaffanculo coglione»
Ok, ora le sparo. No, sarà un problema giustificarmi con il diario, ma non posso portare via la madre alla bambina. Per quanto incapace sia quella femmina, quel cucciolo ha solo quella bestia come madre.
 

Il treno riparte. Ricomincia il viaggio. Sangue freddo. Sono qui per sparare a qualcuno, non per fare il pedagogo.
Il grassone continua a leggere il suo giornale. La smetto di tormentarmi sull’utilità e il danno di sparare a una bambina. Mi distraggo con l’arrivo dei nuovi passeggeri.
Davanti a me si siede una ragazza. Potrei dire che è bella. Mi guarda e dice: «tu cosa ne pensi?»
Mi tocca spararle, faccio per stringere il calcio della pistola, ma prosegue.
«Già, anch’io la penso come te. Eh no…»
Poi si interrompe. Noto all’orecchio destro una luce lampeggiante. Auricolare bluetooth. Credevo mi stesse parlando. Sarebbe stato un peccato doverla uccidere. Troppo bella. Potrei anche innamorarmene, se non fosse oggi e se parlasse con me.
Forse ci siamo. Dalla porta a fianco a me è entrato il controllore. È rivolto al Facebookaro e dice biglietti. Il pollo lo cerca, trattenendo le lacrime. Siccome ci impiega un po’ di tempo, le due ragazze esibiscono l’abbonamento.
Si gira verso di me e allunga la mano. Problema, mi fingo sordo, così lo obbligo a parlare?
Mentre penso, si rivolta, dà un’occhiata al pollo. Ha gli occhi rossi, ma esibisce il suo biglietto.
Il grassone non si è scollato dal giornale. Estrae il tagliando dalla tasca interna. Il controllore lo osserva. Clack, e anche lui è in regola. La ragazza auricolare ha una tessera. Con un cenno della testa è a posto anche lei. È il mio turno. Quello mi fissa e non parla.
Metto una mano sotto la giacca. Accarezzo la pistola, un rito magico. Prendo il biglietto. Lo porgo al controllore. Lo osserva, mi guarda e cambia espressione.
Questa volta sono pronto. Slaccio il bottone. Afferro la pistola e aspetto. Il controllore guarda il mio braccio. Tossisce.
Vidima. Mi porge il biglietto e passa oltre.
Il servizio sulle ferrovie è diventato minimal. Per sette posti il controllore dice solo una volta biglietto. Tecnicamente lo ha detto anche a me, ma si è rivolto a tutti. Ognuno ha obbedito. Non sono preparato. Avrei dovuto pensare a tutte queste situazioni.
Ma è così difficile parlare? La gente chiacchiera in attesa, sull’ascensore, dal dottore, in fila. Perché invece, oggi, sul treno, nessuno parla con me? Ho un aspetto poco raccomandabile? Ho sbagliato dopobarba?
Osservo il mio riflesso sul finestrino. All’apparenza sono una persona normale. Ben rasato, pulito, pettinato, sembro uno qualsiasi.
 

Qualcuno mi tocca la spalla. Mi volto. Un ragazzo sui venticinque anni che indossa blue jeans, felpa rossa e un cappellino da baseball bianco. Mi porge un biglietto: Sono muto, se vuoi aiutarmi, compra un portachiavi. Grazie dell’aiuto.
Vedo che allunga la mano, ci sono un paio di portachiavi orribili.
Non mi ha parlato, ma ha rivolto a me la sua comunicazione. È fatta. Posso portare a termine il mio proposito. Strana la sorte, devo sparare a un muto.
Mi alzo. Estraggo la pistola e gliela punto a un centimetro dal naso. La ragazza-auricolare è la prima che inizia a urlare, il Facebookaro chiude il netbook e lo usa come scudo. Una delle due ragazze, quella che non ha mai smesso di parlare al cellulare, inizia a raccontare quello che vede. Una cazzo di cronista d’assalto, una corrispondente dalla follia. Tutto il vagone urla. Il grassone? Non legge più il giornale.
Il dottore ha ragione, io sono pazzo e tu sei il lettore.
«Ma che cazzo fai?» Urla il muto.
Fermo immagine. Un muto non può parlare. Quello che ho davanti non è un vero muto.
«Tu parli?» dico.
«Sì» risponde, mentre si piscia addosso.
«No, non va bene. Tu menti. Il tuo comportamento non è etico!»
Premo il grilletto.
Sono certo che il falso muto vorrebbe scusarsi, ma, ormai, è troppo morto per giustificarsi.
Il treno entra nella galleria: tutto è buio.


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